mercoledì 19 settembre 2007

Sarà, ma io mi aspetto solo il colpo di grazia

di Massimo Fini da “Libero” del 4 agosto 2007
Marcello Veneziani scrive che i giovani d’oggi sono dei fannulloni che non hanno più voglia di lavorare. Se così fosse sarebbe un’inversione di tendenza molto interessante e feconda. Vorrebbe dire che ci sono giovani che, pur cercando, per il momento, di acchiapparne quel che possono, non hanno più voglia di sacrificarsi per un modello di sviluppo insensato che io ho definito “paranoico”. E non è certamente un caso che il pubblico che legge i miei libri, che non è poco (“Il vizio oscuro dell’Occidente” ha venduto più di 200 mila copie) sia formato, in prevalenza, da giovani (18-35 anni) e che a teatro, quando ho dato “Cyrano se vi pare…”, ci fossero soprattutto giovani.Il mito del lavoro nasce infatti con la Rivoluzione industriale razionalizzata dall’Illuminismo nelle sue due declinazioni: liberale e marxista. Ed è presente in entrambe le ideologie: per Marx il lavoro è “l’essenza del valore” (non per nulla Stakanov diverrà un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberal-liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore”. Prima il lavoro non era mai stato un valore ma, come diceva San Paolo, “uno spiacevole sudore della fronte”. Tanto è vero che è nobile chi non lavora e contadini e artigiani lavorano solo per quanto gli basta. Il resto è vita.In contrapposizione ai “fannulloni” di oggi Veneziani ricorda le durissime fatiche fisiche, il “gettar sangue” (ma anche le sudate soddisfazioni) dei contadini della sua terra, la Puglia, e “l’orrore e il terrore per la miseria”.Ma il mondo contadino, che Veneziani ha visto da ragazzo, e che racconta così bene, ha poco a che vedere col mondo contadino dell’era preindustriale. Perché non è che un’enclave derelitta del mondo industriale che lo circonda, lo aggredisce, lo depaupera. Certo “la terra è bassa” come dicono i contadini. Lo è oggi e lo era ancor di più quando le macchine agricole non esistevano. E il sole picchiava spietatamente allora come ora. Ma non c’era alcun “terrore della miseria”. Perché la miseria non c’era. Alexis de Tocqueville, uno dei padri del pensiero liberal-democratico, di cui Gianfranco Morra è uno degli infiniti epigoni, ma che conosceva bene entrambe le esperienze, quella industriale e quella preindustriale, nota, con stupore, come il termine “pauperismo” compaia per la prima volta nell’Inghilterra degli anni ’30 dell’Ottocento, cioè nel Pese più opulento d’Europa impegnato in uno spettacolare sforzo produttivo e imprenditoriale. E constata: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano e apparentemente inspiegabile. I paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove in realtà si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza una parte della popolazione è costretta per vivere a ricorrere all’elemosina”. (A. de Tocqueville, “Il Pauperismo”).In Inghilterra – sono sempre notazioni di Tocqueville – un sesto della popolazione è povera, in Spagna e Portogallo, ancora all’inizio dell’industrializzazione, c’è un povero ogni venticinque abitanti e nella Creuse, la regione meno industrializzata della Francia, “ci si limita a un indigente ogni cinquantotto abitanti”.Ma anche la Spagna, il Portogallo, la Creuse di quegli anni sono comunque già attaccati e intaccati dall’industrialismo. Nell’Europa preindustriale, la cui popolazione era composta al 90 per cento da contadini e artigiani, i mendichi era l’un per cento e, in genere, era mendico chi voleva esserlo (erano i “borderline”, i disadattati del tempo).
Quando in Europa ognuno viveva del suo
Come si spiega questo paradosso? Col fatto che ogni famiglia viveva sul suo (una metà nelle forme della proprietà, l’altra in quella di un possesso talmente illimitato nel tempo da corrispondere alla proprietà) e del suo. Scrive lo storico Giuseppe Felloni, autore di un manuale per le Università, e quindi del tutto ortodosso, “Storia economica dal Medioevo all’età contemporanea”: “In campagna le terre sono distribuite con criteri che antepongono l’equità distributiva all’efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadattate alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi, eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti ben precisi… le terre… per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico, e via dicendo, che gravano sulla proprietà e sul possesso privati, ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”. È il regime feudale delle “terre aperte” (open fields), un punto di equilibrio, sofisticato e complesso, che potremmo meglio definire come “com’unitarismo”, dove ogni famiglia deve avere il suo spazio vitale. E lo stesso criterio vale nel mondo artigiano dove è assolutamente proibita la concorrenza, per due secoli di Tudor e gli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i loro campi, ma poi con la rivoluzione parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia (e quel Parlamento era zeppo di grandi agrari, di grandi mercanti, di banchieri), si ruppero gli argini e si permise a costoro di recintare i campi (enclosures), il che consentì sicuramente di aumentare la produttività ma buttò milioni di contadini alla fame pronti a servire da carne da macello per le fabbriche dell’incipiente industrializzazione. Ed è in questo periodo che compaiono i braccianti, quelli ricordati da Veneziani, cioè contadini il cui campo, per il venir meno delle servitù comunitarie, non è più sufficiente a sostentarli e sono costretti ad andare a lavorare, a paga, su quelli altrui.
Aumenta la vita, cresce la paura
Il mondo economico feudale non si basava sulla “competizione” ma sulla “cooperazione”. Sembrerebbe un sistema ragionevole, umano. Ma non era razionale. Non era particolarmente efficiente. E lo abbiamo abbattuto. Privilegiando la concorrenza e la competizione spietata che, al loro estremo limite, ci hanno portato alla globalizzazione, che esaspera le disuguaglianze nel Primo e nel Terzo mondo, e fra questi due mondi, e soprattutto, acuisce gli stress, le nevrosi, le depressioni, le sofferenze psicologiche del vivere moderno. Certo noi non fatichiamo più come un tempo, ma poi andiamo a fare jogging, sudando, da soli, senza un perché. Se ci sono giovani “fannulloni” che non vogliono più stare a questo gioco, rovinoso e turpe, ben vengano. Borgonovo e anche Morra gettano sul piatto il pezzo forte della modernità: l’allungamento della vita. Qui bisogna fare almeno una precisazione. Tutta la comunità scientifica e medica ci fa credere, non innocentemente, che gli uomini dell’età preindustriale vivessero trent’anni o poco più. Ma questa è la “vita media” che non ha nulla a che fare con quella reale perché sconta l’altissima mortalità natale e perinatale che lasciava in vita i più robusti. Il confronto corretto va fatto con “l’aspettativa di vita” dell’adulto. Senza addentrarci in complesse indagini statistiche di cui abbiamo dato con ne “La Ragione aveva Torto?”, cui rimandiamo, si può dire che l’aspettativa di vita dell’uomo preindustriale era di circa settant’anni. Anche padre Dante in pieno Medioevo fissa il “mezzo del cammin di nostra vita” a trentacinque anni. E un paio di millenni prima il salmista della Bibbia dice: “Settanta sono gli anni dell’uomo”. Sull’aspettativa di vita abbiamo quindi guadagnato una decina d’anni. Ma poichè, nonostante tutte le nostre autoillusioni, la vecchiaia comincia come allora a sessant’anni (questo è il termine fissato, per esempio, dai Romani) come sa chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno, ciò significa che abbia semplicemente raddoppiato il tempo da vivere in questa età atroce (“atra secectus” la chiamavano i Latini che erano meno retorici e più realisti di noi che crediamo di poter sostituire le parole – “la terza età” – alle cose). Ma lasciamo pur perdere un discorso che sarebbe troppo lungo. Borgonovo dice che la medicina moderna, tecnologica, ha consentito di salvare molte vite, altrimenti inesorabilmente compromesse, compresa la sua. E questo è incontestabile. Ma per una vita che salva questa medicina miracolistica en fa morire mille altre. Di paura. La medicina tecnologica, con i suoi interventi eccezionali, ci ha completamente disabituati a confrontarci con quello che i filosofi, quando esistevano ancora, hanno chiamato “i nuclei tragici dell’esistenza”: il dolore, la vecchiaia, la morte. Nella nostra società la morte – quella biologica è inevitabile, intendo, quella violenta possiamo sempre sperare di scapolarla – è stata rimossa. Interdetta. Proibita. Dichiarata pornografica. La morte è il grande vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”, altro che la pederastia di vittoriana memoria. Tanto che non osiamo nominarla nemmeno là dove parrebbe inevitabile (nei necrologi c’è scritto di tutto tranne “è morto”). Ma tutte queste rimozioni, divieti, verboten, precauzioni, prevenzioni, autopalpazioni, autoauscultazioni, sei esami clinici l’anno, vogliono dire una cosa sola: una paura della morte, quale nessuna società del passato ha conosciuto in questa misura. E, come diceva il vecchio e saggio Epicuro, “muore mille volte chi ha paura della morte”. Se quindi la medicina tecnologica può essere positiva nei singoli casi, nel complesso è negativa perché ci fa vivere male, tutti, quando siamo ancora sani.Morra mi bolla come un revenant del Sessantotto, un tardo seguace della sinistra pur critica (Adorno, Marcuse), un “rivoluzionario al contrario”, cioè un reazionario. Non capisco come un uomo dell’acutezza intellettuale di Morra possa cadere in simili equivoci. Probabilmente ha letto solo, voglio sperare, i sunti, necessariamente semplificatori, che ho scritto per Libero.Lasciamo pur perdere le storie personali (io al Sessantotto ho partecipato per i primi tre mesi, quelli libertari, me ne sono andato, schifato quando ho visto che si linciava la gente trenta contro uno).Io non sono affatto un reazionario. Sono un antimodernista, che è cosa del tutto diversa. Sconfitti nazismo e fascismo, che erano comunque fenomeni novecenteschi, noi siamo tornati a ragionare esclusivamente con le categorie del liberalismo e del marxismo, e con i loro derivati, che sono di origine settecentesca o del primo Ottocento. Si considerano il top della Modernità. E in effetti lo sono. Solo che in questi due secoli, in cui la storia ha corso a velocità vertiginosa, la Modernità è molto invecchiata. Non è più nient’affatto moderna. E i veri reazionari, “le vecchie zitelle”, sono proprio i modernisti che si affidano acriticamente a un modello che ha fatto il suo tempo e che invece considerano, talmudicamente, irreversibile. Sono loro i veri deterministi. Considerarmi un reazionario e nello stesso tempo un pensatore di sinistra, che è per sua natura progressista, è quantomeno una contraddizione in termini. Se la mia critica si appunta oggi sull’industrial-capitalismo è perché il marxismo è morto nel 1989 e solo Berlusconi può credere che esistano ancora dei comunisti in Occidente.
I problemi aperti della tecnologia
Dice bene Morra quando scrive che “ogni società nel corso della Storia risolve alcuni problemi sono nella misura in cui ne fa nascere altri”. Una volta Paolo Rossi, non il calciatore, non il comico, ma il grande filosofo della scienza, mi disse: “La tecnologia nel momento in cui risolve un problema ne apre altri dieci, sempre più difficili e che non è detto che, alla lunga, riesca a risolvere”. La tecnologia si pone oggi come un vertiginoso moltiplicatore di irresolubili in cui stiamo naufragando tutti. Ma, a parte questo, è evidente che un modello che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura, il giorno che non potrà più espandersi, né verticalmente, producendo oggetti sempre più inutili, né orizzontalmente, conquistando nuovi mercati, imploderà su se stesso. Questo Morra lo sa come tutti i Morra della Terra. Ma preferiscono tapparsi gli occhi e le orecchie, come le scimmiotte dell’apologo. Questi stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Se fossi un altro albero – poiché non sono buono – riderei a crepapelle. Ma poiché sono sullo stesso ramo urlo. E, con buona pace di Morra, in Italia sono il solo a farlo o quasi (in Francia ci sono Latouche, De Benoist e altri, negli Stati Uniti si sono le correnti di pensiero del bioregionalismo e del comunitarismo, nel nord Europa l’ambientalismo radicale scandinavo che non ha nulla che vedere con i nostri Verdi).E non sono per un ritorno al passato che, come sempre si dice, non si può mai ripetere nelle stesse forme. Sono piuttosto per recuperare alcuni suggerimenti che ci vengono da passato per andare oltre il presente. E non mi riferisco al tanto strombazzato filone giudiaco-cristiano che, con la sua idea di progresso lineare, ci ha portato, attraverso varie mutazioni e completamente desacralizzandosi, al punto in cui siamo. Ma al pensiero greco, che pur è all’origine della nostra civiltà, che aveva fortissimo, il senso del limite. Molti miti greci battono su questo punto e sul Tempio di Delfi stava scritto “Mai niente di troppo”. Ecco noi, in Occidente, col nostro delirio di onnipotenza, abbiamo proprio perso il senso del limite. So bene che l’uomo è natura e cultura, che questa è la cifra che ci distingue dagli altri esseri viventi. Ma la componente culturale, artefatta, artificiale, virtuale ha preso dimensioni enormi, tali da schiacciare quasi completamente quella naturale e istintuale. Ed è uno dei motivi, non ultimo, per cui viviamo male. Quel che propongo è un riequilibrio fra questi due elementi, entrambi essenziali, della natura umana. Un progetto, come si vede riformista.E non sono io ad avere certezze, tanto meno moralistiche. Sono stati altri a proclamare che l’Occidente è il Bene Assoluto, detentore di valori universali, i suoi, che si chiamano “libertà, democrazia e libera impresa”. Sono stati altri ad affermare che la democrazia, questo sputo che ha appena due secoli di vita, è il fine e la fine della Storia. Non sono io il totalitario. Ma resto un reprobo. Oppure quando si vuole essere gentili, un “provocatore intelligente”, che è un modo elegante per non rispondere alle mie domande. E va bene, continuate pure così. Io sto, da tempo, da un’altra parte.“Corre, corre la “società del benessere”, col suo sole in fronte e le inattaccabili certezze, e, come un toro infuriato, non si rende nemmeno conto, mentre già gronda sangue, che, in ogni caso, al fondo, non più tanto lontano, della strada delle crescite esponenziali l’aspetta la spada del matador” (Il Giorno, “Cause perse”, 21 luglio 1988 ) .
Articolo postato da Pedro

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