martedì 18 dicembre 2007

Parigi, 10 febbraio 1947: la vendetta dei vincitori

di Fernando Ricciardi www.rinascita.info

Il 10 febbraio del 1947, a Parigi, fu stipulato il trattato di pace tra l’Italia e i vincitori della seconda guerra mondiale, un bel pacchetto di nazioni, ventuno, che costituivano le cosiddette potenze alleate ed associate. Più che un trattato di pace, però, si trattò di un diktat iniquo e vergognoso che l’imbelle governo italiano accettò senza fiatare né muovere obiezioni di sorta, al di là di qualche patetica presa di posizione. Nel documento, composto di 90 articoli, venne inserita una clausola diretta a tutelare coloro che si erano adoperati, fin dall’inizio della guerra, a favore degli alleati. L’articolo 16, infatti, così recitava: “L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia od avere agito in favore della causa delle Potenze Alleate ed Associate”. Lo scopo era chiaro: si voleva assicurare la totale impunità ai traditori che fin dallo scoppio della guerra, d’intesa con il nemico, avevano remato contro. E, nello stesso tempo, si desiderava proteggere chi, dopo l’8 settembre 1943, nella cosiddetta lotta di liberazione, si era reso responsabile di massacri e di crimini che non avevano alcuna giustificazione politica. Una norma di tal guisa lasciò interdette parecchie delle potenze associate tanto che venne approvata con grande travaglio e con una spaccatura clamorosa in sede di votazione. Altro articolo degno di essere evidenziato è il 79: “Ciascuna delle Potenze Alleate e Associate avrà il diritto di requisire, detenere, liquidare o prendere ogni altra azione nei confronti di tutti i beni, diritti e interessi che, alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato, si trovino entro il suo territorio che appartengono all’Italia o a cittadini italiani e avrà inoltre il diritto di utilizzare tali beni o proventi della loro liquidazione per quei fini che riterrà opportuni…”. I vincitori, insomma, per vedersi pagate le riparazioni, avevano la possibilità di rivalersi sui beni privati dei cittadini italiani che si trovavano nel loro territorio. Lo stesso articolo, al comma 3, prevedeva l’intervento del governo italiano che si impegnava “a indennizzare i cittadini italiani i cui beni saranno confiscati ai sensi del presente articolo e non saranno loro restituiti”. Inutile sottolineare che soltanto dopo interminabili contenziosi qualcuno ha potuto ottenere un minimo di risarcimento. Ma lasciamo l’analisi del testo per accostarci ad una delle conseguenze più nefaste provocate da quel trattato: i trasferimenti territoriali ai quali l’Italia dovette piegarsi a favore delle nazioni confinanti vincitrici nel conflitto, in primis Francia e Jugoslavia. L’articolo 11 elencava le terre che dovevano essere cedute alla Jugoslavia. Si trattava del territorio di Zara, del Carnaro, dell’isola di Lagosta e di gran parte della Venezia-Giulia, ossia l’Istria, Fiume, il Carso triestino e goriziano e l’alta valle del fiume Isonzo. Terre italiane da sempre. La città di Trieste, considerata territorio libero, venne suddivisa in due zone: la A affidata agli alleati e la B agli iugoslavi. Nel 1954 la zona A tornò all’Italia, mentre la B continuò ad avere un’amministrazione slava. Nel 1975, infine, con il trattato di Osimo, un’altra magistrale perla del nostro governicchio, la zona B veniva definitivamente lasciata alla Jugoslavia. E così il nostro paese perse per sempre l’estremità nord-occidentale della penisola istriana con le città di Pirano, Isola e Capodistria abitate da una popolazione in gran parte italiana. Ma torniamo al trattato di Parigi.
Con esso le potenze vincitrici, facendosi beffa del solenne principio dell’autodeterminazione dei popoli sbandierato ai quattro venti dal Presidente americano Wilson dopo la grande guerra, non fecero che riconoscere come legittima, avallandola con un preciso puntello normativo, la situazione che nel settore nord orientale si era concretizzata nelle ultime fasi del conflitto con l’impetuosa avanzata iugoslava verso Trieste e Gorizia. Ormai i comunisti di Tito quei paesi li avevano occupati e non avevano alcuna intenzione di togliere le tende. E’ vero, si trattava di terre italiane: ma la cosa, alla fin fine, non è che avesse troppa importanza. Loro sedevano tra i vincitori, con ottime carte da poggiare sul tavolo delle trattative. L’Italia fascista, invece, aveva perso e doveva pagare. Il voltafaccia di Badoglio e del re Savoia non era servito a ribaltare la situazione: l’Italia doveva essere punita in maniera esemplare. Ad iniziare proprio da quel tribolato settore nord-orientale che, in una sorta di calcio-mercato ante litteram, doveva cambiare casacca passando dal tricolore italiano alla stella rossa iugoslava. Stati Uniti e Gran Bretagna, del resto, non volevano perdere la preziosa amicizia di Tito, l’unico in grado di tenere a bada nei Balcani le voraci ambizioni del plantigrado russo. E così, in maniera pilatesca, stettero a guardare, lasciarono fare con colpevole indolenza. D’altro canto si trattava di un dramma tutto italiano e, in quanto tale, limitato e circoscritto. Il segretario di Stato americano Byrnes proprio non riusciva a capire, e lo confessò più volte, tutte quelle inutili discussioni per un esile fazzoletto di terra. L’importante era mantenere gli equilibri di politica internazionale: se poi si doveva fare qualche sacrificio era giusto che toccasse alle nazioni che avevano perso la guerra. Proprio come l’Italia. Qualcuno, in verità, cercò di opporsi all’ineluttabile. E non fu certo il nostro governo, con a capo il democristiano Alcide De Gasperi, il quale convinto di giocare una partita già persa, fin dall’inizio, manifestò l’intenzione di abbandonare Fiume e Zara al loro destino. Ma ci fu qualcuno che fece ancora di peggio. Nelle fasi convulse che precedettero il trattato di Parigi, il rosso Togliatti, d’accordo con Tito, giunse a proporre un singolare scambio: Trieste all’Italia e Gorizia alla Jugoslavia. Poi, per fortuna, non se ne fece niente e le due città rimasero entrambe nel nostro paese. Pensate, però, alle perniciose conseguenze qualora il folle proposito fosse andato in porto: avremmo lasciato alla Jugoslavia un altro nostro pezzo di carne. Chi cercò di opporsi in tutti i modi a quella triste evenienza furono le popolazioni istriane, fiumane e zaratine che, attraverso i loro rappresentanti, si pronunciarono chiaramente a favore dell’Italia. La delegazione, che si incontrò più volte con De Gasperi, non fu, però, neanche ammessa al tavolo delle trattative. Così come rimase inascoltata la richiesta del Comitato di Liberazione Nazionale di Pola che chiedeva un referendum per stabilire quale dovesse essere il destino delle terre di frontiera. Tutto, però fu inutile. Ormai i giochi erano belli che fatti. E tutti a danno dell’Italia. “L’Italia non trattò - scrisse Indro Montanelli -: subì le condizioni che le vennero imposte e poté soltanto esporre, senza gran frutto, le sue ragioni”. Lo stesso De Gasperi, remissivo e sfiduciato, non seppe fare nulla per invertire la tendenza. “Se fosse possibile decidere secondo criteri ideali e di giustizia - ebbe a dire - il trattato sarebbe da respingere”. E invece fu accettato e sottoscritto il 10 febbraio del 1947, a Parigi, per mano dell’ambasciatore Meli Lupi di Soragna. Lo stesso giorno, a Pola, Maria Pasquinelli, delusa dalla resa incondizionata del governo italiano ai diktat delle grandi potenze, uccise il generale inglese De Winton. Niente, però, poteva fermare l’evoluzione degli eventi. La ratifica, infatti, giunse il 31 di luglio, mentre il trattato entrò in vigore il 15 settembre. Da quel giorno per la derelitta popolazione giuliano-dalmata iniziò il dramma: più di 350.000 furono costretti ad imboccare la dolorosa strada dell’esilio. Senza dimenticare quelle migliaia di persone precipitate nelle foibe carsiche dagli auguzzini comunisti di Tito desiderosi di cancellare da quelle terre ogni traccia di italianità. Ma su questo ritorneremo in un’altra occasione. Così come parleremo degli effetti nefasti che, ancora oggi, dopo sessant’anni, si fanno sentire e di chi, proprio per colpa di quel vergognoso trattato, continua ad essere considerato straniero nella sua patria.

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